La storia del santo a cui è dedicato l’oratorio dell’ospedale di Pescia
Non a caso, nelle opere d’arte è facilmente riconoscibile grazie all’animale che ha sempre affianco: nelle migliori delle ipotesi lo troviamo in compagnia di un maiale rosa, se non addirittura di un cinghiale! Degli animali domestici non del tutto convenzionali, soprattutto se consideriamo che la religione cristiana attribuiva loro delle connotazioni negative: sporchi, lussuriosi e aggressivi; erano considerati la personificazione dei peggiori peccatori.
Come mai il cinghiale e il maiale sono diventati gli attributi iconografici più caratteristici di Sant’Antonio Abate?
Nato nel 251 a Coma (in Egitto) e proveniente da una famiglia agiata, Antonio decise presto di vivere isolato nel deserto per pregare e professare povertà e castità. La sua scelta si rivelò ancora più difficile del previsto, poiché per decenni fu perseguitato da innumerevoli e intense tentazioni: mostri e belve feroci non facevano altro che spaventarlo.
La sua dedizione ispirò numerosi fedeli. Nell’XI secolo, con l’intensificarsi del culto taumaturgico delle reliquie di Antonio Abate nella Valle del Rodano, si formò l’Ordine degli ospedalieri antoniani del Tau. I frati antoniani si riconoscevano una forte vocazione assistenziale e, leggenda vuole, che fossero particolarmente specializzati nella cura del terribile “fuoco sacro”: non si trattava altro che della malattia virale causata dall’herpes zoster, per l’appunto conosciuta oggi come “fuoco di Sant’Antonio”.
La loro esperienza assistenziale si diffuse velocemente in tutta Europa nel corso del XIII secolo, arrivando anche in Toscana. Proprio ad Antonio Abate è dedicato un luogo speciale che fa parte del patrimonio storico-artistico dell’Azienda USL Toscana Centro. A Pescia (in provincia di Pistoia), nella seconda metà del XIV secolo fu fondato l’Oratorio di Sant’Antonio Abate. Nel 1775, la fondazione dell’attuale ospedale dei Ss. Cosma e Damiano ne comportò l’annessione come luogo di culto. L’oratorio presenta un ciclo di affreschi, risalente al 1421-1436, attribuito a Bicci di Lorenzo e bottega. In particolare, nella parte absidale sono raffigurate Scene della vita di Sant’Antonio e di San Paolo.
Eppure, cinghiali e maiali non ne abbiamo ancora incontrati. Oltre alla professione medica, i frati antoniani si dedicavano anche a quella di porcari, grazie alla quale potevano sostentare le loro attività assistenziali. L’allevamento permetteva loro di mantenersi e di sfamare i pazienti, ma l’utilizzo del grasso animale era l’ingrediente principale per la realizzazione di unguenti che alleviassero i sintomi del “fuoco sacro”. Inoltre, i maiali erano ben voluti anche dalle comunità cittadine dove i frati si insediavano: infatti, preceduti dal suono della campanella che portavano al collo, girottolavano per le strade delle città nutrendosi dei rifiuti e degli scarti abbandonati.
Fu così che, nel corso del tempo, questi animali vennero associati ad Antonio Abate: nella famosa iconografia del santo, l’immancabile maialino rosa (o l’innocuo cinghiale) rappresenta la vittoria sui terribili peccati che l’avevano a lungo tormentato nel deserto: un male che aveva saputo addomesticare!